Venerdì 15 giugno, ore 18:30, presso i locali espositivi dell’Associazione Flavio Beninati, avrà luogo l’inaugurazione della mostra personale di Raffaella Nappo intitolata Una foresta di antenne.
LA MOSTRA
La mostra Una foresta di antenne, personale di Raffaella Nappo, presenta la più recente produzione dell’artista che nel video e nell’animazione vede il suo attuale mezzo privilegiato di espressione. Privilegiato, appunto; palese, forse – seppur nulla di patente e di scontato ci sia nell’opera di Nappo – non unico, comunque, se questo ingloba, in chiave concreta e allusiva, i mezzi materici e non, adoperati nel suo passato artistico, quali la scultura o la fotografia.
A permanere, nella svolta produttiva dell’artista, è l’artista stessa, la sua essenza, sottile, acuta, profonda, lirica e ironica, riconoscibile non a prima vista ma in quella sottile filigrana di rigagnoli sinaptici che si infiltrano sotterranei come un pensiero che si inerpica in opere apparentemente asettiche nella forma.
È così che l’ossessione tecnologica delle sculture apparentemente minimali, in fibra di carbonio, nylon e fibra ottica degli anni Novanta, si traduce in espressione tecnologica tramite il video o l’animazione (entrambi rigorosamente a-sonori e pensati per essere fruiti a ciclo continuo). E il seme nero da cui erano sbocciati i fiori alti fino a 2,10 metri dello straniante Giardino, come già dissimulato nell’indovinello veronese (VIII-IX sec.), torna a essere scrittura, quando non sfondo su cui la scrittura emerge. Lo si riscontra nelle animazioni in cui, su fondo nero saturo, si muovono parole in lingua inglese, spesso binomi i cui termini si alternano, scorrono paritari o saltellano, ora si attraggono, ora si respingono l’un l’altro, si compenetrano e si sovrappongono, senza che nessuno vinca la “competizione”, più ludica che altro, che mai finisce, perché in loop.
Coppie di opposti, complementari; contraddizioni che convivono in alterni equilibri, nelle opere storiche di Nappo, vivificate da perenni ossimori: archetipi ancestrali, seppur personali e futuribili, opere monumentali e leggiadre, ariose e claustrofobiche, inorganiche per alludere all’organico, meccanomorfe nell’aspetto fitomorfo, anatomiche e aliene, composte da gabbie/scrigni traforati che danno presenza fisica al vuoto circoscrivendolo, grazie a una materia che, in ottica contraria a quella aristotelica, dà forma alla Forma. E le parole prendono forma concreta se “IMAGE”, significante letterario/grafico incarna il significato stesso del vocabolo, divenendo icona, immagine per eccellenza, idea di immagine che scorre aderente al perimetro dello schermo come già il fruitore nella prima personale dell’artista, presso la galleria Lia Rumma (Napoli, 1994), costretto a camminare rasente alle pareti dello spazio espositivo, occupato dall’ingombrante presenza di tre sculture di un metro di diametro ciascuna. E ancora una volta il perimetro dello schermo nero è marcato da lettere che si muovono in un metodico, incessante e prevedibile snocciolarsi ogni volta che incontrano l’angolo dello schermo stesso, destrutturando la parola IMAGE che potrebbe anche essere letta come I’M AGE: “io sono l’età”, quasi una riflessione sul valore culturale dell’Immagine come scansione delle epoche.
Il già sperimentato (nelle opere precedenti) sfondamento del canale percettivo acquisisce ora una forma forse più sintetica, di fruizione a prima vista più immediata, divenendo misurazione della capacità di percezione stessa e della sua velocità, come in Time che, con la sua aritmia, ricorda l’aprire e chiudersi della palpebra, dettato da sonno, noia o ansia, un’ansia che, in tutti i video, è cagionata dall’inquietudine. L’inquietudine di non poter prevedere le evoluzioni in ritmi irregolari così come il timore che sfugga un minimo particolare, quando, al contrario, tutto appare troppo prevedibile (come in IMAGE) o quando si è focalizzati su dettagli altri (si veda il linguaggio binario nell’oblò roteante dell’astronauta di Memory n.1 che prevale sull’impercettibile e costante traslazione del piccolo astronauta, giocattolo in plastica
Tutto, pur nella semplicità, è estremamente articolato, come dimostra la pregnante presenza di ciò che in realtà è assente e che viene immaginato, con l’azione di completamento mentale di ripristino della configurazione percepita. È il caso della bilancia intuita in Good Evil, così come del passante di una cintura in Fear Joy.
Forma cruda, se non fosse che l’orpello sta nell’articolata calligrafia mentale che prolifera nel sottobosco di queste animazioni, così come nei paesaggi/non luoghi, più interiori che altro, che si mostrano alla vista dello spettatore, come per esempio in a Forest, giungla di antenne mosse dal vento quali esili alberi che affollano la vista dalla finestra della dimora dell’artista, come conferma la leopardiana malinconia tradita dal volo di un uccello (“passero solitario”?).
E ancora il mare, in Clouds fisso, monolitico, orizzontale, sotto un firmamento trasformista, che scorre nelle sue mille possibili apparenze, più o meno annuvolato, nella forma quasi di diapositive, foto più o meno sgranate che si alternano in tempi uguali, ricadendo come sipari metallici e rimbalzando sulla marmorea tavola marina, in una variegata scala di grigi.
È ai suoi componenti netti, però, che il grigio lascia spazio in Democracy, titolo contrapposto all’aspetto aristocratico del suo protagonista: un rampollo dell’aristocrazia settecentesca in candida porcellana, girevole come la scultura bronzea che lo riproduce, intento a mostrare un fiore con la mano destra, più in evidenza, celando nella sinistra, più arretrata, un mitra nero che, con la rotazione emerge dal fagocitante nero di fondo grazie al contrasto con le dita bianche.
Si tratta di un “guardare rispetto a”, un “confrontare con”, come nell’intero corpus di opere dell’artista in cui nulla è dato a sé ma necessita di una controparte fisica o supposta, visibile o intuibile, progettata o dedotta che garantisce l’essenza vitale della possibilità.
Eliana Urbano Raimondi