ARTICOLO APPARSO SUL NUMERO DI GENNAIO 2016 DELLA RIVISTA ARBITER
di Giuseppe Frangi
Chiamarlo pittore è del tutto limitante. Manfredi Beninati, palermitano, è una specie di vulcano creativo. Un uomo che è transitato attraverso tutte le discipline, partendo dal cinema da cui ha mosso i primi passi, come assistente alla regia di Damiano Damiani e approdando, come confessa, alla narrativa che lo sta catturando in questi ultimi tempi. Il curriculum di Manfredi Beninati è di quelli da far girar la testa: Londra, New York, Buenos Aires, Messico, Los Angeles sono state di volta in volta le «sue» città prima di decidersi di tornare nella Palermo che fatica a sentire ancora sua («Troppo abbandono, troppa prepotenza mafiosa nella gestione della città», dice con amarezza).
Ma a spingerlo di nuovo a Palermo è stata una questione molto umana: la vicenda di cui è stato vittima un fratello da lui tanto amato, Flavio («un giovane uomo che, come tutti i giovani ma più di altri, amava la vita. Era uno sportivo e un viaggiatore, profondamente innamorato della cultura italiana», troviamo scritto sul sito dell’Associazione che a lui è stata dedicata). Ricorda Manfredi: «Flavio ha dovuto trascorrere gli ultimi 31 giorni dei suoi soli 33 anni di vita terrena in stato di coma, privato di ogni contatto umano con quanti lo conoscevano e amavano, che un ottuso e crudele comportamento di chi era preposto alla “cura” della sua salute hanno irreversibilmente impedito. Per questo abbiamo voluto dedicargli, noi che eravamo i suoi cari, qualcosa d’importante come lui era per tutti noi e, crediamo, sarà per tutti quest’associazione in un futuro prossimo». Flavio Beninati era un uomo che amava l’Italia e ne difendeva con le unghie l’immagine nei suoi giri per il mondo. Così il fratello Manfredi (con la mamma) ha voluto tenerne vivo quell’impeto con un sito che raccoglie le biografie degli italiani che hanno lasciato un segno positivo, a vantaggio di tutti. Un impegno civile importante che ha riportato Manfredi a Palermo.
Per lui del resto il fare arte è un «fare memoria». La sua pittura che spesso gronda di colori, di segni e di materia spesso prende spunto dall’oggettività d’una fotografia. È quell’immagine la matrice su cui s’innesca la vena poetica di Manfredi: basta vedere la serie di lavori dedicati al fratello, che con malinconia e dolcezza fanno vibrare una relazione così duramente stroncata dalla vita. Nell’arte di Beninati prevale sempre questo accento intimo, delicato che parte da sguardi sulla normalità del quotidiano. È questo il trait d’union che garantisce, pur nel suo eclettismo, uno stile riconoscibilissimo, sia che dipinga sia che scolpisca sia che realizzi delle performance. La sua è un’arte da interni, che cresce e si dilata partendo dal dettaglio personale e quotidiano.
Per questo l’esperienza che lo ha portato a realizzare la copertina per Arbiter è un’esperienza per lui «da trasferta». Si è trovato ad avere a che fare con un personaggio pubblico. Sergio Marchionne, per di più dal temperamento forte, e poco consono a qualsiasi introspezione. Così Beninati ha deciso di puntare quasi più sullo stile che sul volto; quindi sul celebre maglione che è il segno distintivo del numero uno di FCA. Ma anziché scegliere il classico blu, Beninati ha virato sul rosso, proprio per comunicare l’idea più decisa dell’uomo solo al comando. Attorno tutti i simboli del suo impero, con uno stile dagli evidenti richiami futuristi. Lo sguardo al futurismo non è un caso: per Beninati infatti i riferimenti artistici sono tutti sempre italiani. A partire da Medardo Rosso, il grande scultore torinese di nascita ma milanese d’adozione, che lui ritiene grande come Michelangelo e al quale tutti gli scultori del ‘900 sono in diverso modo debitori: «Anche il grande Brancusi lo è. Basta guardare quel capolavoro che è Madame X del 1896. La semplificazione e la ricerca di una purezza assoluta delle forme è un’intuizione di Medardo». È Rosso che sa far precipitare tutto l’universo personale, intimo e quotidiano nelle forme di una scultura.
«Se devo stabilire quando un’opera d’arte è riuscita o meno direi: la riuscita è direttamente proporzionale alla percentuale dell’esperienza personale, di vita vissuta, della propria visione del mondo che ci circonda, che l’autore riesce a canalizzare nella stessa». Lo dice Beninati, ma Medardo sottoscriverebbe.
Intervista apparsa su Arbiter (gennaio 2016)